Salute: il comune garante delle prestazioni sanitarie
C’è un tema che sembra estraneo alle competenze del Comune: quello della salute. Non è esattamente così. Nel nostro pensiero c’è sempre il rischio della semplificazione. E così, pensiamo che la salute sia di competenza dei medici e solo dei medici. Non è così. La nostra condizione di essere sani o ammalati ha molte concause, come le hanno tutte quelle condizioni intermedie che ci fanno convivere con malesseri, preoccupazioni, patologie, dolori. Vengono chiamate i determinanti della salute. La nostra salute è funzione di numerose circostanze concorrenti, che vanno dal patrimonio genetico agli stili di vita, dal lavoro che facciamo all’ambiente nel quale viviamo, dalla capacità di comprendere una diagnosi o un bugiardino alla mappa delle nostre relazioni. Ammalarsi sembra solo fatalità e guarire sembra un mix di s/fortuna e di competenze mediche e di terapie efficaci, ma non è vero. La salute, da questo punto di vista, è una misura molto sensibile delle nostre risorse economiche ma anche cognitive, della nostra posizione sociale, delle nostre abitudini. Questa premessa ci aiuta a capire che la salute (un diritto ma anche un bene pubblico per la nostra Costituzione) ha due significati che vanno ritrovati. Uno è quello del suo essere poco “democratica” in una società sempre più ineguale: chi è più in alto nella scala sociale (per reddito, per titolo di studio, per capitale relazionale) si ammala meno e ha più probabilità di guarire di chi sta in basso. L’altro significato riguarda i principi-cardine sui quali si basa il Servizio Sanitario Nazionale (uno dei capisaldi, assieme al sistema pensionistico, del nostro Stato sociale): non stiamo a elencarli, ma ricordiamo almeno che mirano a garantire l’assistenza sanitaria di qualità a tutti i cittadini e senza discriminazioni; che sono finanziati dalla fiscalità generale, cioè dalle tasse che paghiamo; che le persone ammalate non sono solo pazienti, ma titolari di decisioni che riguardano la loro salute. Parlare di questi valori, che dovrebbero essere fondativi, ci ricorda un aforisma dolce-amaro: sono vecchi come certe battute, ma fanno ancora ridere… In realtà c’è molto poco da ridere se pensiamo alla ostinata tendenza alla privatizzazione delle strutture sanitarie (per cui viene curato chi se lo può permettere); al “turismo sanitario”, che porta decine di migliaia di persone a spostarsi sul territorio nazionale alla ricerca di servizi migliori; al costo relativo del sistema sanitario sui bilanci pubblici (alle nostre latitudini intercetta circa un terzo del bilancio provinciale); alla situazione di endemica carenza di organico e di estenuante fatica del personale sanitario: ce lo ricordava, non più tardi di un mese e mezzo fa, il presidente Mattarella nel suo discorso di fine anno.
Dunque, sono due le equazioni che vanno messe in discussione: l’equazione salute=medicina; e l’equazione salute=servizio pubblico. Da lì dobbiamo ripartire. Fra le competenze che il Comune può, e deve, esercitare ci sono tutte e ciascuna quelle che si riferiscono all’informazione (la biblioteca ha un compito importante nell’alfabetizzare alla salute), alla prevenzione (pensiamo solo allo sport, che non può risolversi nel solito giro di giostra contributi/impianti/campionati, ma dev’essere un comportamento il più possibile diffuso in ogni condizione e fase della nostra vita), alle morti evitabili (a partire dagli incidenti sul lavoro e agli incidenti stradali), alla capacità di intercettare i disagi emotivi (soprattutto dei giovani, che generano dipendenze, disperazione e lo spreco di un’intera generazione). Si tratta di azioni per le quali a un alto impatto corrisponde una bassa o nulla visibilità, perché una morte evitata non finisce sul giornale: per questo alla politica interessano poco, ma a noi devono interessare molto. Allo stesso modo, il Comune deve farsi garante di un ritrovato statuto pubblico delle prestazioni sanitarie, cioè di un principio che sia affermato nei fatti e non rimanga su una carta sempre più sbiadita. Perché le prestazioni sanitarie sarebbero un diritto ma, come diceva Bruno Pizzul in una telecronaca, il condizionale è d’obbligo.